D. Pietro Paolo Parzanese (1809-1852)
Collezione Diocesi di Ariano Irpino-Lacedonia)
Ben volentieri apriamo una rubrica che intende ricordare e valorizzare la splendida personalità di D. Pietro Paolo Parzanese (Ariano Irpino, 1809- Napoli 1852).
Il prossimo 11 novembre 2009 Ariano ricordera il nostro cantore dei poeveri, figura eccelsa del presbiterio della diocesi di Ariano Irpino- Lacedonia. E’ in preparazione il programma dell’evento, intanto il Vescovo Diocesano Mons. Giovanni D’Alise ha convocato il primo nucleo del comitato per le celebrazioni del bicentenario. Prossimamente saranno pubblicate le decisioni.
Al fine di contriobuire alla rilettura dell’opera dell’uomo, del poeta, del critico, della pastorale del nostro Parzanese, iniziamo una piccola rassegna di scritti e notizie varie.
1. Cenno biografico di Davide Riccio: ” Pietro Paolo Parzanese, un dimenticato poeta dei poveri”.
Pietro Paolo Parzanese, sacerdote poeta e traduttore, nacque ad Ariano, l’attuale Ariano irpino, nel 1809, da Giuseppe negoziante di panni e da Giovanna Faretra, donna di fiere e belle sembianze. Egli fu il terzo di undici tra fratelli e sorelle.
Come riferì lo studioso Augusto Castaldo, Parzanese nacque con l’ombelico attorno alla gola, così che la levatrice pronosticò volesse dire che il collarino da prete dovesse avvolgergli il collo per tutta la vita.
La sua infanzia fu malaticcia e piena di paure e di insonnie; a otto anni era già taciturno e meditabondo. A 10 anni fu messo in seminario e vi stette fino ai quattordici. Dei suoi primi maestri, preti e frati, qual più qual meno uomini ignoranti, maneschi, ‘di lingua sporca’ e di ‘poco santi costumi!’ egli lasciò un tutt’altro che edificante ritratto nelle ‘Memorie’.
In seminario si attirò ben presto l’ammirazione del canonico Nicola Boscero per la prontezza con cui improvvisava prediche, poesie e tragedie. A dieci anni cominciò a recitare versi estemporanei, e a sedici, nel teatro comunale di Benevento, improvvisò addirittura una tragedia intitolata ‘Sedecia’.
Nel 1825, da Napoli, dove si era recato per i suoi problemi di salute, fece ritorno alla nativa Ariano. E qui, nel 1830, a vent’anni, s’innamorò della giovinetta Rosaria Vernacchia, che però morì di lì a poco, lasciandolo in tale desolazione da fargli abbracciare, nonostante il suo temperamento esuberante, la carriera sacerdotale. Fu dapprima ordinato sacerdote e nominato maestro di grammatica nel seminario del suo paese, a ventiquattro anni ottenne la cattedra teologale e fino al 1837 resse la diocesi di Ariano in qualità di vicario capitolare.
Nel 1837, abbandonò l’insegnamento e gli uffici ecclesiastici per dedicarsi interamente ai suoi due amori, alla poesia e alla predicazione. Fu un singolare ed eloquente oratore sacro, come dimostrano i ‘Panegirici’, i ‘Sermoni’ e le ‘Prediche’, che ci restano di lui.
Quelli che ebbero la fortuna di ascoltarlo, erano soggiogati dalla parola facile e armoniosa e dal fascino della sua alta e bella persona.
Nonostante il sacerdozio pare ebbe degli amori decisamente profani, come quello per la poetessa Rosa Taddei, donna ‘maritata e stramba’.
Fu molteplice l’operosità e la fecondità del Parzanese. Tradusse dalla Bibbia, da Plauto, da Klopstok, da Byron, da Victor Hugo, postillò Dante; studiò i moderni e i contemporanei, il Monti, il Foscolo, il Manzoni, dei quali sentì nei primi imparaticci l’eco e l’influenza, segnatamente quella del Manzoni. I suoi libri prediletti furono la Bibbia e Virgilio, dal quale derivò la chiarezza della forma.
Tentò vari generi, assurgendo ai canti più alti nelle ‘Armonie italiane’ (1841), con cui volle dare un addio alla sua giovinezza. Liriche alate e pregevoli, ma non tali da giustificare l’ineguale parallelo, come fu, fra il Parzanese e il Leopardi. Seguirono le sillogi ‘Canzoni popolari’, ‘I canti del Viggianese’, i ‘Canti del povero’, ‘Dio, Angeli e Santi’, ‘Fiori e stelle’, ‘Il Due novembre’, ‘idilli e sonetti’, tutte comprese nell’edizione delle ‘Opere complete’ (Ariano, 1889).
Importanti furono i ‘Canti del Viggianese’. Viggiano era un grosso villaggio nella provincia della Basilicata, e i viggianesi erano gente naturalmente disposta alla musica. Da fanciulli imparavano a suonare uno strumento, divenuti adulti lasciavano il paese per andare in giro per il mondo, suonando, cantando e raggranellando un po’ di denaro per tornare infine in patria a godersi la pace della famiglia. Andavano dappertutto, Francia, Turchia, Russia, Spagna, e per via raccoglievano canzoni, romanze che, ritornando in Italia, spacciavano magari come merce nuova e meravigliosa.
Il Parzanese scrisse: ‘Or, avendo io parte desiderio che la nostra poesia si rinnovelli e, quasi direi, si rinvergini con immagini ed armonie native e popolari, non lasciai passar di qua un sol Viggianese senza avergli fatto cantare le sue cento canzoni’. E al modo dei viggianesi egli scrisse quella raccolta di poesie sicuramente tra le più belle.
Nell’agosto 1910, in occasione del centenario del Parzanese, vennero pubblicate alcune cose inedite e pregevoli di lui, la tragedia ‘Giulietta e Romeo’ e il poemetto in tre canti ‘Ituriele’, composto sotto l’influenza del ‘bardo di Erin’ (il poeta irlandese Thomas Moore).
Restano ancora inedite le tragedie il ‘Sordello’ ed ‘Ezzelino’, ambedue in prosa. Inoltre, è dagli anni Dieci che le sue opere non vengono più ristampate.
Il Parzanese fu sacerdote, predicatore e poeta della plebe rassegnata, e nondimeno uomo di carattere eccessivamente accensibile e anche un po’ volubile e vanesio.
Oggi del tutto dimenticato, se non che almeno nel nome nella sua città natale, dove un importante busto di bronzo gli è stato eretto nel bel parco della villa comunale.
Le sue opere, rarissime, si possono soltanto più consultare nelle biblioteche più importanti: sono ormai antiche edizioni da sfogliare con i guanti sperando che, nonostante le attenzioni, la carta non si sbricioli al contatto. Le sorti, pure postume, dei poeti non sono tutte uguali, si sa.Eppure al Parzanese dovrebbe essere riconosciuto, come al Giusti, un ruolo di poeta raro per l’epoca in cui visse: egli fu tra i pochi a scrivere per il popolo, di cui volle esprimerne i sentimenti e consolarne le sofferenze, una nobile ambizione cui sottomise anche la forma e il contenuto. Il suo stile fu consapevolmente reso semplice proprio perché la povera gente comune potesse fruirne la lettura o goderne l’ascolto mentre la poesia comune di un Foscolo o di un Monti o di un Leopardi certo non era accessibile. Anzi. Fu questo il suo maggior difetto che gli costò l’oblio ai posteri, dopo tanta popolarità in epoca borbonica’.
Il Parzanese stesso ammise, nonostante ciò, l’opposto difetto: ‘Lo stile che ebbi a valermi sente sempre un po’ di quello studio che toglie ai concetti popolari la loro freschezza e direi quasi la loro nativa leggiadria’.
Una delle più belle frasi da lui scritte in merito a ciò fu quando scrisse di sapere bene quanto fosse ‘difficile tenersi a quella modesta altezza, a cui valgano a guardare anche gl’occhi degl’idioti’. Ecco, dunque, il Parzanese, un poeta coltissimo che pur tuttavia volle scrivere in un modo che anche gli analfabeti, gli esclusi dal ‘giocondo banchetto delle muse’, ‘gli idioti’ insomma (vale la pena ricordare l’etimo della parola ‘idiota’, ossia ignorante, dal greco idiotes, o anche ‘popolare’ o ‘plebeo’) potessero avere un momento di nobiltà, di bellezza e di ideale.
Una poesia educatrice, fu detta. E Parzanese, scrisse veri capolavori del genere (la Cieca, la Cieca nata, la Pazza, la Morta, la Croce’). Certo, alcune sue ingenuità o puerilità, talvolta, possono urtare i nervi dei dotti, ma il suo mondo poetico non fu privo di verità e di sincerità: in fondo ai poveri del suo tempo non v’era già altra ‘filosofia’, che il poeta e sacerdote volle rinforzare, di una vita terrena insopportabile, ma di transizione verso la vera vita che è nel cielo. Morire è svegliarsi in un mondo migliore.
E il Parzanese volle premunire le plebi dal contagio di dottrine ‘inutilmente’ sovversive, mantenendo perciò viva nel cuore degli artigiani, dei contadini e dei poveri tutti almeno la fede nella provvidenza di Dio, la credenza nell’eterno avvenire, l’amore al lavoro, la rassegnazione nei mali e tutti quei sentimenti che valessero a tenere in pace le plebi in mezzo ai duri travagli della vita. Questo fu, quanto meno, in una prima fase della sua vita e della sua opera, poiché negli ultimi anni (non fosse morto giovane, forse ne avremmo visto una importante svolta in tal senso) egli prese sempre più coscienza del bisogno di costruire un’Italia unita e migliore per tutti, lungi dall’incolmabile baratro tra la ricca aristocrazia borbonica dagli sfarzi incommensurabili, quella terriera in generale, e l’innumerevole gente povera o miserabile.
Cominciò a dire e scrivere cose che non furono affatto gradite. Nel 1848 scrisse l’ode ‘Italia e Napoli’: Dio lo volle! L’Italia s’è desta / e dal fango solleva la testa’ Nel 1853 scrisse l’Addio a Partenope, che fu giudicata ‘la più bella lirica civile, il quadro più vero di quel terribile periodo in cui ‘per la colpa di avere alma e pensiero’ gli intellettuali andavano di prigione in prigione, e nella quale il patriottismo del Parzanese, ormai liberale, non risparmiò neppure il Papa (‘Chi ha un trono nel suo tempio / te suo Signor rinnega’).
Il nome di Parzanese fu annotato nell’elenco degli ‘attendibili’ e venne coinvolto nel processo degli imputati politici del 1848.
Morì il 29 agosto 1852 in un alberghetto di Napoli, ucciso da una terribile convulsione dovuta a una febbre di ignota cagione.
La polizia borbonica tentò di impedire le onoranze funebri che non pertanto il Capitolo della Cattedrale di Ariano e la cittadinanza gli resero in Duomo, grazie all’energica fierezza di monsignor Capezzuti, che alle imposizioni poliziesche rispose che in chiesa comandava lui.”
Davide Riccio (anno 2003)
Fonte: www.rottanordovest.com home page
2. contributo del Prof. Virgilio Iandiorio
Byron e Parzanese
Sono trascorsi più di cento cinquant’ anni da quando, il 20 agosto 1852, moriva in Napoli, nella locanda L’Aquila Nera, il poeta Pietro Paolo Parzanese di Ariano Irpino. L’ avvenimento ha avuto scarsa risonanza nella provincia irpina. E’ più utile, certamente, rileggere Parzanese, rivisitarne la bibliografia, evitando l’effimero, anche se paludato di ufficialità.
Giudizi e pregiudiziHa pesato sulla produzione poetica del Parzanese il giudizio espresso su di lui da Francesco De Sanctis, che lo definì in modo quasi lapidario ” buono e pio poeta di villaggio”. E sulla stessa lunghezza d’onda un letterato attento, come Giuseppe Gabetti, mezzo secolo fa , a proposito della poesia popolare in età romantica scriveva: “la poesia che cercò d’ ispirarvisi, divenne sentimentale-borghese (Prati, Canti del popolo), o sentimentale-paesana, in bonarietà di stile parrocchiale (Parzanese)”. Non differisce di molto il giudizio di autori recentissimi. Così Giulio Ferroni :” Tra i numerosissimi esponenti di questo Romanticismo minore possiamo ricordare anzitutto due poeti meridionali provinciali e appartati, come il lucano Niccola Sole e l’irpino P. P. Parzanese, celebre quest’ultimo per la sua lirica di tono popolare, legata alla vita quotidiana del mondo contadino, rivolta all’edificazione morale e alla difesa dei valori dell’umiltà e della rassegnazione”.
Anche la critica letteraria ha una sua storia e una sua evoluzione; sono difficili i ribaltoni in politica, figuriamoci nella storia letteraria. Studiare, però, un autore e leggerlo alla luce della nostra sensibilità e dei nostri strumenti interpretativi non costituisce un reato, tutt’al più un’opinione diversa. Il lavoro è difficile, impegnativo ma stimolante.
Il poeta e il traduttoreNel 1837 P.P. Parzanese pubblicò un opuscolo dal titolo “Melodie ebraiche di Lord G. Byron”. Si tratta di 23 componimenti del poeta inglese estrapolati dalle sue opere più famose. In Italia, come scrive Mario Praz, il Byron trovò schiere di traduttori e d’imitatori. Proprio nel 1837 era stata pubblicata una versione delle opere byroniane da Giuseppe Niccolini. “Tutti i poemi di questo robusto scrittore(Byron) -scrive il Parzanese nell’introduzione alla sua traduzione- sono conosciuti all’Italia per la compiuta versione che ne ha fatta Giuseppe Nicolini.”
L’interesse dei letterati italiani per Byron non erano poi tanto diverso da quello dei loro colleghi europei. Il poeta inglese era diventato l’eroe della ribellione romantica: egocentrico e generoso, vindice di tutte le libertà e preda di tutte le passioni.” Aveva -scrive il Gabetti- come forse nessuno ebbe mai l’istinto e il genio del bel gesto; l’azione improvvisa e inconsueta che colpisce le immaginazioni ed esalta i cuori, la sentenza eloquente che nella lapidarietà delle sue formulazioni inattese sembra dilatare senza limiti gli orizzonti umani, la parola carica di passione e di calore che eccita e trascina. E passò per l’Europa come una meteora, accendendo passioni di donne e illusioni di poeti, ed entusiasmi generosi e fervori ideali”.
Il poeta irpino, provinciale e appartato, aveva sottomano nel 1837 la produzione più aggiornata delle opere di Byron tradotte in italiano. Nel suo lavoro Parzanese ebbe “compagno all’opera il caro e coltissimo Carmine Modestino, il quale colla sua perizia nell’idioma del Tamigi ci andò man mano sponendo le recondite bellezze di queste melodie”.
Carmine Modestino di Paternopoli era nato nel 1802, sette anni prima dell’amico Parzanese; alla data della pubblicazione delle Melodie ebraiche aveva al suo attivo pubblicazioni di carattere letterario e storico su riviste specializzate ma anche un saggio su Byron del 1826, “di cui -scrive Rossana Stanco nel suo profilo del brillante avvocato paternese- non vi è più traccia nel fondo manoscritti Modestino” della Biblioteca Provinciale di Avellino. E ancora si cimenterà con una traduzione pubblicando nel 1848 Il Giaurro di Byron.
Il mito di Byron in provincia.
Non solo il poeta Parzanese e il fine letterato Modestino avevano interessi per le opere di Byron. Sempre in quel lasso di tempo un altro irpino Paolino Macchia, medico e scienziato, trova il modo come inserire in un suo lavoro scientifico sulla Valle di Ansanto del 1838 un richiamo al poeta romantico. Descrivendo, infatti, il paese di Villamaina dice:” Ne’ calorosi giorni della state vi si gode alla sua ombra (dell’olmo che sta nella piazza principale), ove non ti dispiacerebbe passare le ore dell’ozio sulla molle erba, che le radici ne rinfresca, in leggere qualche pagina della Divina Commedia, le bellezze del Monti, di Byron e del Manzoni”.
Se in una provincia appartata troviamo così diffuso l’interesse per la letteratura straniera, inglese per giunta, vuol dire che la circolazione delle opere letterarie tra le persone di cultura non era rara né eccezionale. Può risultare interessante la riflessione che faceva P. Calà Ulloa nella sua letteratura contemporanea del Regno di Napoli pubblicata nel 1858 e scritta in francese: “La poesia filosofica di Byron, tumultuosa e veemente non era gustata, di questi tempi, che da un piccolo numero di eletti. Non si studiava allora l’inglese; accadde più tardi che si cominciò a familiarizzare con questa lingua”.
La valutazione di un contemporaneoPietro Calà Ulloa (1802-1879), magistrato uomo politico di sicura fede borbonica anche dopo gli eventi del 1860 ,che segnarono la fine del Regno, scrisse molte opere di carattere storico e letterario, tra cui la già ricordata storia della letteratura contemporanea del Regno di Napoli, due volumi in lingua francese pubblicati a Ginevra e ricchi di notizie su due secoli della cultura napoletana.
A P.P. Parzanese l’Ulloa dedica un’ attenzione particolare.”Uno di quelli che merita di avere un posto tra i poeti più stimati di questo periodo è P.P. Parzanese”. E ancora: “Parzanese forse è il poeta che ha lavorato di più dell’orecchio. Ma noi vediamo subito nelle sue Melodie ebraiche che non manca di ardore impetuoso, possedendo al più alto grado il dono felice dell’armonia”.
“Ma una traduzione dove l’ispirazione si mostra ben superiore a quella della versione testuale, e che fa rivivere, ci sembra, il soffio che anima il modello, è quella delle Melodie ebraiche di Parzanese”
“Io oserei anche dire che il traduttore vi si mostra meno e l’autore di più. Giammai la difficoltà dell’originale getta oscurità o languore nello stile; il traduttore è vivo, mostra la forza, l’impeto, la concisione…Il genio del poeta inglese è riprodotto con slancio.Era inoltre questo soggetto a sedurre la fecondità e la nobile immaginazione del traduttore.
La scelta di ParzaneseDel poeta inglese Parzanese non predilige i motivi dell’uomo che insorgere contro la società e il destino senza piegarsi nemmeno dinanzi all’ultimo mistero. “Le Melodie ebraiche -scrive Parzanese nell’introduzione- intanto che sono componimenti di un genere più mite e direi quasi elegiaco non sappiamo che fossero per altri state voltate nella nostra lingua pieghevole e armoniosa, ed invano facemmo voti finora per vederne arricchito l’Italo giardino, nel quale sarebbero cresciute come fiori più spontanei perché più gentili e delicati, quali a fiori del nostro clima esser si conviene”.
Il poeta di Ariano vede nel canto di Byron una partecipazione appassionata per la sciagura del popolo ebraico. “Né per diversa cagione -aggiunge – dovette versare un pianto generoso sulla fatale fortuna de’ figli di Heber, i quali fuggono di terra in terra come uccelli peregrini, e pare che fra tutti gli uomini fossero marcati in fronte colla cifra di un’infamia incancellabile. Ecco perché in questi suoi canti ci si rappresenta come un esule Galileo che si aggira polveroso sulle sponde del Giordano, rivede le rovine del tempio di Sion, siede all’ombra de’ cedri del Libano e tocca le corde dell’arpa dolorosa per lamentare la patria perduta e sparge sulla tomba de’ padri suoi una lagrima ed un fiore…Ed è questa poesia che commuove blandamente il cuore e la sua armonia non spinge né alla disperazione né al delitto”.
Furono anni fecondi, quelli del 1837 e dintorni. Oltre alle citate Melodie, il prof. Emilio Monaco in un saggio sul poeta suo conterraneo annovera fra le traduzioni del Parzanese: “la pubblicazione della Preghiera per tutti di V. Hugo. Tradusse ancora e pubblicò il Cantico dei Cantici, il Mistero e Cielo e Terra del Byron, tre Messiade di Klopstok e passi lirici del Faust di Goethe”. E proprio dal Noviziato di Guglielmo Meister riprese, traducendoli e dedicandoli alla sua patria, i versi famosi: Sai tu la terra, dove gli albòri / son belli, e belli sono i tramonti? / Dove di verdi cedri e di allori / incoronati si alzano i monti? / Quella è la Patria mia!
Virgilio Iandiorio
http://dillon.myblog.it/archive/2006/04/14/byron-e-parzanese.html